A pochi giorni dal 21esimo anniversario della morte del Magistrato Paolo Emanuele Borsellino, avvenuto il 19 Luglio 1992 in via D'Amelio per mano mafiosa, pubblichiamo un articolo che tratta proprio della (ormai innegabile) trattativa Stato-Mafia.
Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell'abitazione della madre con circa 100 kg di esplosivo a bordo detonò al passaggio della loro auto, uccidendo oltre a Paolo Borsellino anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, scampato perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta.
I funerali di Paolo si svolsero poi il 24 Luglio, con rito privato, poichè la moglie Agnese e il fratello Salvatore rifiutarono con tutte le forze il "rito di Stato": accusavano il governo di non aver saputo proteggere il marito.
Di seguito l'articolo, tratto da AffariItaliani, che a sua volta cita un libro appena uscito di Giovanni Fasanella "Una lunga trattativa", edizioni ChiareLettere.
Non basta la verità giudiziaria. Nel mare di
accuse e veleni che continuano a inquinare i processi in corso sulla
trattativa Stato-mafia, con particolare riferimento alle morti di
Falcone e Borsellino, e che hanno addirittura coinvolto indirettamente
il presidente della Repubblica, è necessario provare a spostare il
nostro angolo visuale e fare un passo indietro. La storia ci viene in
aiuto per capire che cosa sta succedendo. La partita è troppo grossa
perché possa rimanere nelle aule di un tribunale. In gioco è la
Repubblica italiana, il nostro Stato. Entrambi nati con l’appoggio
fondamentale della mafia. L’autore spiega come e perché. Dalla
vittoriosa cavalcata di Garibaldi aiutato dai picciotti siciliani
durante la spedizione del 1860 agli omicidi impuniti d’inizio secolo che
contaminano il tessuto economico-finanziario, all’alleanza col fascismo
che si limitò a contrastare la manovalanza armata. Poi il patto di
sangue con gli angloamericani nel 1943 per indirizzare la pace, seguito
dagli omicidi e dalle stragi del dopoguerra perché la sinistra non
avesse il sopravvento al Sud, fino alle tragiche vicende oggetto degli
attuali processi. Difficile ammetterlo, però è così: la mafia è stata
una risorsa decisiva per lo Stato italiano sin dai suoi albori unitari
offrendo appoggio anche militare a chi vigilava sul controllo
“democratico” del paese e talora a chi sosteneva veri e propri disegni
eversivi. La magistratura non ce la può fare da sola a spaccare questa
crosta spessa di bugie, inganni e depistaggi pilotati. In nome della
pace e di una ragione che di Stato ha ben poco. Una pace insanguinata.
Per la difesa di interessi internazionali, per il controllo del
Mediterraneo. Una partita a scacchi che ci vede di volta in volta
spettatori fragili e passivi, collaboratori interessati o eroi
coraggiosi, fino alla morte.
La fragilità della
verità giudiziaria - estratto dal libro "Una lunga trattativa", di
Giovanni Fasanella (per gentile concessione di Chiarelettere editore)
Un’avvertenza,
innanzitutto. Questo non è un libro di storia, ma una ricostruzione
giornalistica basata su testimonianze raccolte dall’autore in vari
periodi della sua attività e poi incrociate con informazioni provenienti
da fonti archivistiche, bibliografiche e giudiziarie. Il tema è la
cosiddetta «trattativa Stato-mafia» che avrebbe avuto luogo tra il 1992 e
il 1993, nel traumatico passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica,
quando le istituzioni sarebbero scese a patti con le cosche concedendo
benefici ai boss per indurli ad abbandonare la strategia stragista. Da
allora, ciò che accadde in quella fase tra le più tragiche della nostra
storia è argomento al centro dell’attenzione pubblica. Riempie i
fascicoli delle inchieste della magistratura e le pagine della cronaca
giudiziaria. Alimenta i talk show televisivi. Arroventa le polemiche
politicomediatiche. Provoca durissimi scontri istituzionali.
Ma
non si è mai riusciti a venirne a capo: si trattò davvero? e chi trattò
con chi? Né la giustizia né la politica hanno saputo o voluto dare una
risposta. Almeno una risposta soddisfacente: non parziale, lacunosa o,
peggio, di parte. Così, a molti anni di distanza dai fatti, resta un
vuoto di verità. L’idea di scrivere il libro è nata – e non a caso –
subito dopo la clamorosa decisione della magistratura siciliana di
chiedere la revisione dei processi per l’assassinio del giudice Paolo
Borsellino perché le undici sentenze di condanna che erano state emesse
contro boss e killer mafiosi si basavano su false dichiarazioni di un
finto pentito. Insomma, erano il frutto di un «colossale depistaggio».
Poi, man mano che procedevamo nel nostro lavoro di ricostruzione, sono
accadute tante altre cose che meritano di essere perlomeno citate,
perché confermano quanto sia difficile districare sul piano giudiziario
una matassa così complessa e sensibile qual è il rapporto Stato-mafia.
Mentre
crollava il castello processuale sulla morte di Borsellino, il
presidente della Commissione parlamentare antimafia, l’onorevole
Giuseppe Pisanu, già ministro dell’Interno, consegnava alle Camere e
all’opinione pubblica la sua verità: non vi furono vere e proprie
trattative, ma «parziali intese» tra boss mafiosi e ufficiali del Ros
dei carabinieri, delle quali nulla sapevano gli alti vertici delle
istituzioni, ha scritto nella sua relazione assolvendo la politica e
scaricando l’intera colpa sulle solite «mele marce» degli apparati. Poi è
esploso il «caso Napolitano». Cioè l’intercettazione di conversazioni
riservate tra Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno controllato dalla
Procura di Palermo nell’ambito dell’ennesima inchiesta sulla
«trattativa», e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, a cui
Mancino si era rivolto.
L’esistenza delle bobine, rivelata
proprio dall’autore di questo libro in un articolo su «Panorama»,1 ha
provocato uno scontro violento tra il Quirinale e i pm palermitani: il
capo dello Stato, convinto che la procura avesse abusato del proprio
potere ascoltando illegalmente le sue telefonate, ha sollevato un
conflitto di attribuzione di fronte alla Corte costituzionale, che gli
ha dato ragione e ha ordinato la distruzione dei nastri. Così,
l’opinione pubblica non saprà mai per quale ragione il responsabile del
Viminale all’epoca delle stragi, sentendosi nel mirino della
magistratura, si era rivolto al presidente della Repubblica: l’aveva
fatto per chiedere consigli e protezione a un amico potente o per
richiamare l’attenzione del Quirinale sull’estrema delicatezza delle
inchieste palermitane e sui rischi per la tenuta delle stesse
istituzioni, nel caso le indagini fossero proseguite?
Nell’incertezza,
mentre il libro era pronto per andare in stampa, a Palermo si stava
avviando a conclusione il secondo processo sulla «trattativa» (imputati
alcuni boss mafiosi e responsabili del Ros) e un terzo stava avendo
inizio (oltre ai mafiosi e agli ufficiali dei carabinieri, imputati
anche diversi uomini politici, tra cui Mancino). Il tempo dirà se il
terzo processo sarà anche quello definitivo o solo un episodio di un
sequel infinito. Ma intanto, un ex procuratore di Palermo, poi capo
della Direzione nazionale antimafia, Pietro Grasso, all’indomani delle
elezioni politiche del febbraio 2013, è stato eletto presidente del
Senato.
Sin dal giorno del suo insediamento ha ripetuto
pubblicamente che una verità non c’è, e bisogna continuare a cercarla
attraverso una commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi mafiose
e su tutte quelle compiute in Italia da piazza Fontana (1969) in poi:
«Perché ci può essere un certo filo che collega le stragi di terrorismo
politico e le stragi di terrorismo mafioso. Ci potrebbero essere ancora
tante cose gravi da scoprire. E la cosa peggiore, per un magistrato, è
intuire e non poter dimostrare, perché la verità giudiziaria non
coincide con quella storica». Figurarsi con quella politica. Il silenzio
di Stato Il quadro è desolante.
A parte le frasi di circostanza
pronunciate in occasione della celebrazione dei morti, di fronte alla
tragedia del 1992-93 la politica appare del tutto indifferente o
interessata a proteggere solo se stessa, mentre la magistratura e la
prima carica della Repubblica si ritrovano al centro di un duro
conflitto: l’ennesimo, nella storia giudiziaria italiana, tra le ragioni
della giustizia e quelle dello Stato. Il risultato, appunto, è che
ancora una volta l’opinione pubblica non sa il perché delle bombe e dei
tanti morti e feriti. Pietro Grasso, che pure era un magistrato
impegnato in prima linea, con all’attivo la cattura di centinaia di
mafiosi, dubita fortemente che, per ricostruire la verità, basti da solo
lo strumento della giustizia. Ed è difficile dargli torto.
Il
fatto è che, fra tutti i nervi scoperti, quello del rapporto Stato-mafia
è di gran lunga il più sensibile. Perché, come ha lasciato intendere lo
stesso presidente del Senato, è soltanto la punta di un iceberg, la cui
parte sommersa si dilata negli abissi della storia italiana. È un
rapporto antico, quasi una tara genetica. Perché nasce e cresce con la
stessa Italia. Si intreccia costantemente con le sue vicende politiche
interne e con le dinamiche geopolitiche internazionali. Sin dal
Risorgimento, entra con tutto il suo peso nei passaggi cruciali della
vicenda unitaria, condizionando la vita pubblica e contaminando il
tessuto economico-finanziario, la cultura e persino la psicologia di una
nazione. Difficile ammetterlo, però è così: lo Stato convive con la
mafia, ora in modo conflittuale ora pacificamente, sin dai suoi albori
unitari. Se ne serviva quando occorreva, garantendole favori e impunità;
salvo poi scaricarla nelle fasi in cui diventava zavorra inutile e
ingombrante. È qui la verità, in questo rapporto perverso, patologico.
Ecco perché è così complicato, se non impossibile, scriverla nelle
sentenze giudiziarie. Eppure la si può intravedere nitidamente se solo
si prova ad allungare lo sguardo oltre le carte processuali. Se si
colloca l’epicentro geografico del fenomeno, la Sicilia, nel suo
contesto storico, politico e geopolitico. Perché è lì la chiave per
aprire quelle porte che la magistratura trova sbarrate dal silenzio di
Stato.
In una delle sue ultime interviste, Borsellino disse:
« Se la gioventù le negherà il consenso, anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo. »